M8. “BIENNIO ROSSO”, FASCISMO E NAZISMO

 

1. Il “biennio rosso” in Europa

1.1 L'ondata di scioperi e il “vento russo”

1.2 L'inganno della terra promessa ai contadini

1.3 Il biennio rosso in Germania: la repubblica di Weimar e la rivolta spartachista

1.4 Il biennio rosso in Italia e l’avvento del partito fascista

 

2. L’Italia fascista

2.1 La “Marcia su Roma” del 1922

2.2 La prima fase del regime fascista. Il consolidamento del potere 

2.3 La fabbrica del consenso 

2.4 La politica sociale del regime 

2.4 Politica economica

2.5 Una politica estera aggressiva

2.6 I rapporti con la Chiesa ufficiale, i “Patti lateranensi”

2.7 Il regime fascista e le opposizioni 

2.8 Apogeo e declino del regime fascista

 

3. Il Nazionalsocialismo in Germania

3.1 La Repubblica di Weimar

3.2 Le radici e l’ascesa del nazismo

3.3 Il Nazismo al potere

3.4 L’ideologia nazista e l’antisemitismo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Il “biennio rosso” in Europa  

1.1 L'ondata di scioperi e il vento russo…

Il biennio 1919-1920 segna in tutta Europa un’impennata senza precedenti del numero di scioperi. Il numero degli scioperanti si triplicò in Inghilterra, si moltiplicò per quattro in Italia e in Francia e addirittura per sedici in Germania. Alla base di quest’ondata di agitazioni sociali stanno due fatti nuovi. Il primo è rappresentato dagli enormi problemi che in tutti i paesi europei si presentano alla fine della guerra. Le industrie, che hanno lavorato a ritmo accelerato per sfornare armi e munizioni, devono ora riconvertire la loro produzione per la pace. I soldati che tornano dal fronte non trovano lavoro e faticano molto a reinserirsi nella società civile. I prezzi inoltre registrano un aumento generalizzato, che peggiora ulteriormente le condizioni di vita della parte più povera della popolazione. Nelle maggiori città di molti paesi europei scoppiano disordini: la gente chiede pane e lavoro. Il secondo fatto nuovo è l’esempio offerto dalla rivoluzione russa del 1917: per la prima volta dopo la Comune, l’idea socialista sembra aver trovato un campo di applicazione concreto, capace di resistere nel tempo. Operai e contadini ne traggono la spinta a rilanciare la propria battaglia per un futuro migliore. Alla testa delle agitazioni si pongono spesso organizzazioni politiche che si definiscono comuniste e si ispirano all’esempio di Lenin e della rivoluzione russa.

 

1.2 L'inganno della terra promessa ai contadini

In tutti gli eserciti europei la parte del leone l’hanno fatta i contadini. Dalle campagne proviene infatti la grande massa dei richiamati sotto le armi e sono loro ad aver pagato il prezzo più alto in termini di morti e feriti. A quasi tutti questi soldati-contadini era stata fatta la stessa promessa: per convincerli a combattere, gli ufficiali avevano assicurato che alla fine della guerra sarebbe stato assegnato a ciascuno, come ricompensa, un pezzo di terra sufficiente a vivere per sé e la propria famiglia. Molti di loro avevano accettato il pericolo e la sofferenza di una guerra di cui non capivano il significato, solo perché avevano il miraggio di realizzare così il sogno della propria vita: l’indipendenza economica e la libertà dalla fame e dal bisogno. Al momento di rientrare nella vita civile questa promessa si rivelerà però per quello che era fin dall’inizio: un inganno crudele. Per nessuno dei contadini europei che hanno combattuto questa promessa sarà mantenuta. Ciò spiega perché nell’Europa del primo dopoguerra si sviluppa un ciclo senza precedenti di agitazioni sociali nelle campagne e di occupazioni delle terre da parte di braccianti e salariati agricoli.

 

1.3 Il biennio rosso in Germania: la repubblica di Weimar e la rivolta spartachista

La repubblica di Weimar

Prima ancora dell'armistizio, in Germania si costituirono numerosi "consigli" formati da operai e soldati, che, come i soviet russi, configuravano una forma di rappresentanza istituzionale alternativa e antagonista a quella parlamentare. Il movimento di rivolta, iniziato i primi di novembre del 1918 con l'ammutinamento dei marinai della base di Kiel, dilagò nel paese, costringendo alla fuga l’imperatore Guglielmo II. Travolto dalla sconfitta e dalla mobilitazione popolare, l’imperatore Guglielmo II fu così costretto ad abdicare e l’incarico di cancelliere passò al leader socialista maggioritario Friedrich Ebert: la Germania si trasformava così in repubblica. Come sede della assemblea costituente, che avrebbe dovuto disegnare la fisionomia del nuovo stato, venne scelta una piccola città della Turingia: Weimar. Fu una scelta dettata dalla necessità di sfuggire alle agitazioni che ancora travagliavano l’ex capitale Berlino, ma fu anche una scelta simbolica che intendeva rompere con la tradizione militaristica incarnata dalla vecchia sede dell'impero. Tuttavia, a differenza di quella russa dell’anno precedente, la “rivoluzione” tedesca del 1918 fu una rivoluzione esclusivamente politico-istituzionale: instaurò infatti una repubblica parlamentare, ma lasciò intatti sia il sistema economico-sociale preesistente, sia la burocrazia e l'esercito che erano stati i principali pilastri del Reich guglielmino. Il nuovo regime si fondava sull’alleanza tra questi stessi pilastri ed il partito socialdemocratico maggioritario, che operò con ogni mezzo per arginare la rivoluzione, isolando e reprimendo gli altri settori della sinistra. Il risultato fu che la nuova democrazia repubblicana poggiò, sin dall'inizio, su fondamenta fragili e malsicure, mai pienamente riconosciuta ed accettata dalle componenti più autoritarie della società e dello stato.

 

La rivolta spartachista

Nel gennaio 1919 i nodi vennero al pettine. Da una parte, l’esempio bolscevico spinse alcuni settori dell'estrema sinistra - tra i quali si distingueva la Spartakusbund (Lega Spartaco), un gruppo nato nel 1917 e che si era appena trasformato in partito comunista - a proclamare l'insurrezione a Berlino. La rivolta fu spietatamente repressa dal governo socialdemocratico e i due leader della Spartakusbund, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, vennero assassinati dai "corpi franchi", bande paramilitari reclutate da ex ufficiali dell’esercito che operavano agli ordini del governo. Dall’altra, alle elezioni della prima assemblea costituente della storia tedesca, tenutesi sempre nel gennaio 1919, la socialdemocrazia conquistò la maggioranza relativa dei voti (38%) e scelse la strada di un'alleanza con i partiti di centro: il partito cattolico del Zentrum (20%), radicato soprattutto tra i ceti contadini del sud, e il nuovo Partito Democratico (19%), di ispirazione liberaldemocratica. I consigli di operai e soldati vennero soppressi uno ad uno.

 

3.4 Il biennio rosso in Italia e l’avvento del partito fascista

La campagna in rosso

Nella memoria collettiva degli italiani il biennio 1919-1920 è noto come il "biennio rosso". Ad alimentare questo mito è soprattutto il clima nuovo che si respira nella campagne. In passato i contadini italiani avevano già dato vita a grandi scioperi e ad occupazioni di terre, come nel caso dei Fasci Siciliani di trent’anni prima. Questa volta però è diverso. Le masse rurali sono tutte in ebollizione: al sud come al nord. La ragione è sempre la stessa: rivendicano il diritto alla proprietà della terra da essi lavorata, cioè semplicemente il mantenimento della promessa che a molti di loro è stata fatta negli anni di guerra per convincerli a combattere contro gli austriaci. Soprattutto nelle campagne padane i braccianti in sciopero riescono ad ottenere consistenti aumenti salariali e il controllo del collocamento: i lavoranti infatti vengono assunti nei campi attraverso le leghe sindacali. Nelle altre zone scendono in lotta per la prima volta antiche figure sociali: i mezzadri del centro Italia (che conquistano una percentuale più alta del raccolto) e i contadini poveri del Mezzogiorno che occupano le terre incolte del latifondo.

 

La crisi del sistema politico

Questo protagonismo delle masse trovò sbocco in una crescita vertiginosa dei sindacati - che raggiunsero i 4 milioni di iscritti, più della metà dei quali membri della Confederazione generale del lavoro - e in un Partito socialista guidato dall’ala "massimalista" (favorevole all’applicazione immediata e integrale del massimo programma rivendicativo), che alle elezioni del novembre 1919 diventò il partito di maggioranza relativa con il 32% dei voti. Nel settembre 1920 gli operai metallurgici risposero ad una serrata padronale occupando le officine e proseguendo la produzione negli impianti presidiati da "guardie rosse" armate. L'occupazione delle fabbriche fu in effetti una prova di forza decisiva, alla quale tuttavia la dirigenza del Partito socialista non seppe dare uno sbocco politico. Con l'abile mediazione del vecchio Giolitti - tornato al governo nel mese di giugno - essa si concluse infatti con un compromesso che sulla carta soddisfaceva le richieste salariali dei metallurgici e introduceva il controllo sindacale sulle aziende, ma che nella pratica neutralizzava il movimento operaio e riconfermava l’autorità del padronato.

 

I limiti del movimento di massa

Apparve allora evidente il limite più grave di quel ciclo di lotte operaie e contadine: quello di non riuscire a saldarsi in un movimento unitario. Il socialismo italiano soffriva di una profonda divisione tra i massimalisti, che avevano la maggioranza nel Partito socialista e si proclamavano rivoluzionari, ed i riformisti, che invece auspicavano una politica di collaborazione con le classi dirigenti. Minoritari nel partito, questi ultimi controllavano però il gruppo parlamentare, la Confederazione generale del lavoro e le molte amministrazioni comunali "rosse" del centro-nord. Così il contrasto fra i due gruppi impedì al partito di operare con efficacia o per la rivoluzione o per le riforme. A fronte di queste spinte sociali molto diversificate, infine, i consensi socialisti erano concentrati per oltre due terzi in Piemonte, Lombardia, Emilia e Toscana, ma assai più deboli nel resto del paese.

 

Nascita del Partito popolare

Alle elezioni del 1919 oltre un quinto dei suffragi andò ad un altro nuovo partito: il Partito popolare, appena fondato da don Luigi Sturzo, che inaugurava l'autonoma presenza dei cattolici nella vita politica italiana, ponendo fine al regime di separazione che la Santa Sede aveva imposto all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia. Sulla carta Partito socialista e Partito popolare avevano la maggioranza alla Camera - mettendo in evidenza quanto profonda fosse la crisi dello stato liberale e dei suoi sistemi di rappresentanza - ma nella realtà erano antagonisti: l'uno anticlericale, l'altro aconfessionale ma molto dipendente dalla Chiesa si contendevano aspramente il consenso popolare. Nel seno del Partito popolare potenti gruppi moderati, assai compenetrati con la vecchia classe dirigente, coesistevano con una componente democratica: di fatto esso svolse così in primo luogo un ruolo di argine contro i socialisti, spalleggiando i governi del tempo.

 

La scissione di Livorno del Partito socialista

Mentre la reazione armata squadrista continuava a dilagare, esplosero le profonde divisioni di un movimento operaio ormai in ritirata. Al XVII congresso del Partito socialista, che si tenne a Livorno nel gennaio 1921, l'estrema sinistra uscì dal partito per costituire, sotto la guida dell’ingegnere napoletano Amadeo Bordiga, il Partito comunista d'Italia, sezione della nuova Internazionale comunista. Al nuovo partito aderì il gruppo torinese del giornale "L'Ordine nuovo", che negli anni precedenti aveva sviluppato un'originale elaborazione teorico-politica, individuando nei consigli di fabbrica gli strumenti per rinnovare il movimento operaio e al tempo stesso le prime cellule di una nuova società socialista. Al comunismo italiano approdarono così giovani intellettuali di grande valore come Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini. Il nuovo partito rimase però minoritario e accelerò, anziché risolvere, la crisi del movimento operaio italiano.

 

La riforma proporzionale

Presieduti tra il 1919 e il 1921 da Francesco Saverio Nitti e da Giolitti, questi governi assunsero alcune importanti misure per integrare nel sistema le forze sociali e politiche attivate o irrobustite dalla guerra. Esemplare fu, da questo punto di vista, l'introduzione da parte di Nitti del sistema elettorale proporzionale nel 1919, che favorì l'affermazione di partiti organizzati su scala nazionale, come i socialisti e i popolari, ai danni della vecchia classe dirigente, formata ancora da ristretti gruppi di potere locali legati ai collegi elettorali uninominali. La riforma ebbe così l’effetto di accelerare la crisi del sistema liberale, ma non dette luogo ad un processo complessivo di adeguamento delle strutture oligarchiche dello stato italiano ad una società ormai massificata. I ceti dirigenti riuscirono cioè a contenere la pressione del movimento operaio, ma non offrirono alla sua ala riformista praticabili prospettive di trasformazione democratica, né d’altra parte furono capaci di recuperare appieno il controllo del parlamento e di un paese radicalmente cambiato.

 

La fine del “biennio rosso”, la controffensiva padronale

Rafforzati dai superprofitti di guerra, gli industriali disponevano di ampi margini per ammortizzare l'eccezionale ciclo di vertenze di quegli anni. Prima ancora che si facesse sentire in Italia la crisi economico-finanziaria postbellica, passarono all'offensiva: la stessa occupazione delle fabbriche fu originata dall'intransigenza degli imprenditori, decisi a ridimensionare il movimento operaio e sempre più propensi ad uno "stato forte". In questa direzione premevano da tempo aggressive tendenze nazionaliste, che erano cresciute con la guerra e si giovavano del mito della "vittoria mutilata" (alimentato dall'esito deludente della conferenza di Parigi) per far presa su ampi settori dell'opinione pubblica. Nel settembre 1919 un corpo di volontari con a capo il poeta Gabriele D'Annunzio occupò la città di Fiume  per annetterla all'Italia. L "impresa di Fiume" non produsse alcun risultato, ma, determinando una situazione di illegalità protratta sino alla fine del 1920, mise in evidenza la debolezza della classe dirigente liberale. Essa esercitò inoltre notevoli suggestioni in una piccola e media borghesia uscita impoverita e declassata dal conflitto, dopo che vi avevano riposto grandi aspettative di cambiamento e di ascesa sociale, e tra gli ex combattenti, affascinati dal mito dell’azione e della violenza che avevano appreso nelle trincee della guerra.

 

I Fasci di combattimento

Fu in questo delicato momento di passaggio che balzò alla ribalta una nuova forza politica, fondata dall'ex socialista (espulso dal partito socialista perché favorevole alla guerra) Benito Mussolini nel marzo 1919 e rimasta sino ad allora marginale: il fascismo. Alla loro nascita i "Fasci di combattimento" avevano riunito piccoli gruppi di futuristi, ex sindacalisti rivoluzionari e "Arditi", membri cioè delle truppe d'assalto della "grande guerra". Il loro primo programma riprendeva alcuni punti della tradizione democratica e socialista, come la richiesta di un'assemblea costituente e la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. La scelta interventista aveva però sostanzialmente allineato Mussolini al nazionalismo di estrema destra. La vera novità del movimento fascista fu l’introduzione della violenza nella lotta politica: le sue prime gesta furono la distruzione della sede dell' "Avanti!" e l'organizzazione di squadre antisciopero. Con l'appoggio determinante della grande proprietà terriera della Toscana e soprattutto dell'Emilia, il cui potere era stato duramente intaccato dalla crescita del movimento socialista, il fascismo si organizzò dopo l'estate 1920 in squadre paramilitari e scatenò una violenta guerra sociale. L'imponente rete delle organizzazioni socialiste venne distrutta in meno di 10 mesi.

 

Il fascismo e i calcoli del ceto dirigente

La violenza "squadrista" incontrò solo deboli resistenze da parte di un movimento operaio abituato a mezzi pacifici di lotta politica e approfittò invece della connivenza delle autorità e degli apparati dello stato. Alle nuove elezioni politiche del maggio 1921 i fascisti vennero inclusi nei "blocchi nazionali" promossi dalla vecchia classe dirigente: non ebbero eletti che una trentina di deputati, ma il calcolo di Giolitti e di molti altri esponenti liberali di poterli riassorbire nella legalità dopo essersene serviti per ristabilire l'ordine si dimostrò illusorio. Sostenuto infatti anche da alcuni settori della grande industria, il fascismo si avviò ad acquisire dimensioni di massa, guadagnando crescenti consensi fra i ceti medi e non poche simpatie fra i liberali e i cattolici più conservatori. Nel 1921-22 l'impotenza dei successori di Giolitti alla guida del governo - Ivanoe Bonomi e Luigi Facta - rese irreversibile l'agonia dello stato liberale, mentre un nuovo blocco sociale, composto in prevalenza da ceti medi ma egemonizzato dal grande padronato agrario e industriale, veniva saldandosi attorno al fascismo.

 

L'avvento del fascismo

Tra il 1921 e il 1922 venne definitivamente sconfitta l'opposizione di sinistra e nel vuoto aperto dal collasso dello stato liberale si verificò nel paese un vasto travaso di poteri e consensi verso la destra estrema. Nel novembre 1921 il movimento dei fasci si costituì in Partito nazionale fascista, contando ben 300.000 iscritti, quando nel momento della sua massima espansione il Partito socialista aveva superato di poco i 200.000.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. L’Italia fascista

2.1 La “Marcia su Roma” del 1922

Mussolini, confortato dai successi riportati dalle squadre fasciste in tutta Italia, decide di agire nell'ottobre 1922. Chiede le dimissioni del primo ministro Facta, e a sostegno della sua richiesta mobilita le squadre fasciste (alcune miglia di “camice nere”) facendole convergere a Roma il 28 ottobre. La dimostrazione di forza avrebbe potuto essere facilmente dispersa dalle truppe poste a difesa della capitale, ma il re Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare lo stato d’assedio e sancì il successo della cosiddetta "Marcia su Roma", incaricando lo stesso Mussolini di formare un nuovo governo. Esaltato dai suoi artefici come una rivoluzione, l'avvento del fascismo fu in realtà un colpo di stato reazionario, che non sarebbe mai stato possibile senza l’appoggio più o meno esplicito di tutti i "poteri forti" della società italiana:

 

2.2 La prima fase del regime fascista. Il consolidamento del potere 

Le elezioni del 1924

Il primo passo nel processo di fascistizzazione dello stato fu una legge elettorale maggioritaria (detta legge Acerbo dal nome del deputato proponente), elaborata e approvata nel 1923, che prevedeva l'assegnazione del 65% dei seggi alla coalizione che avesse raggiunto almeno il 25% dei voti. I fascisti presentarono il cosiddetto "listone", nel quale trovarono posto liberali e cattolici, mentre le opposizioni antifasciste si presentarono divise. Anche grazie ad uno stillicidio di brogli e violenze che rimasero impunite, il risultato fu favorevole in modo schiacciante alle forze di governo, che ottennero il 65% dei voti. Solo al Nord i voti non fascisti si avvicinarono numericamente a quelli della lista avversaria.

 

Il delitto Matteotti

All’indomani delle elezioni, il deputato Giacomo Matteotti, leader dei socialisti riformisti, denunciò in parlamento i brogli e le violenze commesse nel corso della campagna elettorale. Pochi giorni dopo, nel giugno 1924, Matteotti venne sequestrato e ucciso da una squadra fascista capeggiata da un informatore del ministero degli interni, Amerigo Dumini (riconosciuto colpevole verrà processato e condannato a 5 anni per omicidio preterintenzionale: ne sconta solo uno e torna al suo lavoro di spia del ministero). Subito apparve chiaro che Matteotti (il cui corpo venne ritrovato due mesi dopo in un bosco vicino Roma) era rimasto vittima della violenza fascista e che i mandanti del delitto andavano ricercati al più alto livello e forse anche nello stesso Mussolini. Presso l'opinione pubblica moderata il fatto ebbe un'eco vastissima: l'episodio dimostrava infatti che la "normalizzazione" annunciata da Mussolini nei confronti de-gli squadristi non era affatto riuscita e che un'opposizione legale non era tollerata.

 

La crisi detta dell’ “Aventino”

I gruppi antifascisti reagirono al delitto Matteotti con la scelta di abbandonare il parlamento: il cosiddetto "Aventino" (così chiamato per analogia con la decisione della plebe romana di ritirarsi, secondo la tradizione, sul colle Aventino per protesta contro i soprusi dei patrizi), osteggiato dal solo Partito comunista, che aveva invece proposto uno sciopero generale. Gli "aventiniani" (il cui leader era il liberale Giovanni Amendola) miravano a provocare un intervento del re. Si trattò di una scelta sbagliata. Trincerandosi dietro il formale rispetto del parlamento, il re si astenne da ogni iniziativa.

 

La fase di stabilizzazione

La crisi Matteotti venne superata da Mussolini accelerando i tempi e radicalizzando i modi della fascistizzazione dello stato. In un discorso pronunciato il 3 gennaio 1925, Mussolini rivendicò l'intera responsabilità dell'accaduto, dichiarando che se il fascismo era un’associazione a delinquere egli ne era il capo. Venne così apertamente sfidata la legalità costituzionale e la rivendicazione di Mussolini si concretò nella richiesta di pieni poteri (destinata ad esautorare completamente il potere legislativo del parlamento) e nel varo di una serie di leggi dichiarate "eccezionali", volte a cancellare la democrazia mettendo fuorilegge tutti i partiti, tranne quello fascista, e istituendo la censura sugli organi di stampa.

Fine dello Stato liberale, le leggi repressive  

Eliminate o ridotte al silenzio le opposizioni, il fascismo procedette alla formulazione di nuove leggi (ad opera del ministro della giustizia Alfredo Rocco) destinate a stravolgere i caratteri dello Stato liberale.

Dicembre del 1925 la prima delle leggi eccezionali stabilisce il primato del capo del governo rispetto al parlamento, nei fatti abolendo la distinzione e l’autonomia dei poteri caratteristiche dello stato liberale.

Febbraio-settembre 1926 una legge “sindacale” proibì lo sciopero e stabilì che solo i sindacati “legalmente riconosciuti” (ossia quelli fascisti) potevano stipulare contratti collettivi.  

Novembre 1926, prendendo a pretesto alcuni falliti attentati alla vita di Mussolini, viene presentato un disegno di legge "per la difesa dello Stato" nel quale viene stabilito:

 

2.3 La fabbrica del consenso 

La necessità del consenso

Dopo la presa del potere, una delle prime preoccupazioni del regime fascista fu quella di assicurarsi un largo consenso popolare (anche per superare la diffidenza provocata dal delitto Matteotti) cercando di coinvolgere direttamente le masse nella vita politica e pubblica, organizzandole e mobilitandole a sostegno delle iniziative del regime. Le forme di questa partecipazione popolare furono fortemente dirette, disciplinate e imposte dall'alto; i loro contenuti erano ispirati al nazionalismo, al militarismo e alla gerarchia: "credere obbedire combattere" fu uno degli slogan più noti del fascismo.

 

Il Pnf (Partito nazionale Fascista)

La prima cellula di questa partecipazione fu rappresentata dal Partito nazionale fascista (Pnf), che crebbe a dismisura dal punto di vista numerico. Certo la crescita degli iscritti non può certo essere considerata un indice attendibile della popolarità del partito, dato che la non iscrizione poteva comportare la perdita del lavoro (specie negli uffici pubblici) e altre forme di discriminazione. Tuttavia l'irreggimentazione coatta nelle sue file di masse spesso fino ad allora digiune di ogni educazione politica ebbe l'effetto di esporle, per la prima volta in modo sistematico, ad un indottrinamento ideologico che non poteva non lasciare traccia nelle coscienze.

 

Le organizzazione “corporative”

Accanto al partito, sorsero poi altre organizzazioni "corporative", rivolte a determinati settori e categorie. Divisi per età, bambini, adolescenti e giovani ("figli della lupa", "balilla", "avanguardisti" per i maschi e “piccole italiane”, “giovani italiane” e “giovani fasciste” per le femmine) subivano l'indottrinamento ideologico fascista, ma trovavano anche luoghi di socializzazione.

Gli universitari, raccolti nei Guf (Gruppi universitari fascisti), godevano poi di una maggiore libertà e i loro atteggiamenti di fronda venivano talvolta tollerati.

Le donne, riunite in appositi organismi di categoria (i gruppi femminili fascisti, le massaie rurali, ecc.), svolsero anch'esse nel corso del fascismo una sorta di apprendistato politico e acquistarono maggiore visibilità pubblica: un risultato paradossale e in contrasto evidente con l'ideologia e la pratica della subalternità femminile e con il ruolo tradizionale di spose e madri esemplari assegnato alle donne. L'organizzazione del tempo libero, delegata all'Opera Nazionale Dopolavoro (creata nel 1926), fu un'altra innovazione importante, perché permise al fascismo di utilizzare per i propri fini la rete di case del popolo creata dal movimento socialista.

 

Uso dei mezzi di comunicazione di massa

Uno degli strumenti di consenso più efficace fu offerto al regime dai mezzi di comunicazione di massa. Nelle intenzioni di Mussolini, gli strumenti di comunicazione di massa dovevano essere sottoposti ad un processo di progressiva fascistizzazione: “In un regime totalitario la stampa è un elemento di questo regime, una forza al servizio di questo regime [...] Ecco perché tutta la stampa italiana è fascista e deve sentirsi fiera di militare compatta sotto le insegne del Littorio” (da un discorso di Mussolini del 10 ottobre 1928). 

Del 1925 è la nascita dell'Istituto Luce, l'ente che presiedeva alla confezione dei cinegiornali di informazione e propaganda. Soprattutto però sono da segnalare i finanziamenti all'industria cinematografica e quindi al cinema di intrattenimento, che riscuoteva notevole successo. Nel 1927 vide infine la luce l'Eiar, progenitore della Rai, che all’informazione ufficiale alternava programmi leggeri, canzoni e varietà. Comportamenti e mentalità degli italiani furono influenzati da questi canali di diffusione e si identificarono con alcuni aspetti dell'ideologia e della propaganda fascista: l'ordine, la repressione dei conflitti sociali, il conformismo e il rispetto della cultura tradizionale.

 

Il sostegno della Chiesa nel favorire il consenso

Il ruolo svolto dalla Chiesa e dal cattolicesimo furono fondamentali nel favorire il consenso. Il clerico-fascismo trovò il suo terreno di elezione nel nazionalismo, nella politica coloniale, nella pretesa missione civilizzatrice della Roma imperiale e cristiana e nella polemica contro il materialismo delle democrazie capitalistiche, in nome della figura guerriera del Cristo-re. Atmosfera, questa, che accompagnò e seguì anche i provvedimenti contro gli ebrei. Al tempo stesso però, la tradizione cattolica diffusa temperava le asprezze ideologiche e le pretese totalitarie del fascismo, invitava alla moderazione e osteggiava l'antisemitismo e il razzismo più aggressivi e intolleranti.

 

2.4 La politica sociale del regime 

Una politica sociale divisa tra tradizionalismo e modernizzazione

Fin dai primi anni il regime fascista ha mostrato di muoversi in due direzioni, apparentemente opposte:

  1. da una parte si avvertono tendenze conservatrici in difesa della tradizione rurale italiana
  2. dall’altra la volontà di modernizzare il paese per trasformarlo in una grande potenza mondiale

 

La politica sociale conservatrice e a difesa della tradizione

Collegata a questa tendenza abbiamo, tra le altre, le seguenti iniziative:

  1. esaltazione della campagna e del mondo rurale
  2. esaltazione del matrimonio e della famiglia come fondamento della società
  3. proibizione dello sciopero e messa fuori legge delle organizzazioni sindacali (naturalmente tranne quelle fasciste)

1. Esaltazione della campagna e del mondo rurale

Secondo Mussolini la ricchezza (o meglio la potenza) della Nazione stava nel numero di braccia che questa sapeva offrire. Per tale motivo aveva scelto il contadino quale simbolo di un’Italia laboriosa e frugale. A sostegno del mondo delle campagne furono emanate due leggi nel 1931 e 1939 che limitavano (in realtà con poco successo) il movimento migratorio dalla campagna alla città. La particolare simpatia del Duce per il mondo rurale è mostrata dalle diverse immagini e filmati propagandistici del regime e della figura del Duce stesso, che lo ritraggono in attività di campagna, quasi mai in lavori di officina. Probabilmente la simpatia mostrata per la campagna si deve anche all’origine contadina di Mussolini.

2. Importanza del matrimonio e della famiglia come fondamento della società

Sempre in base al teorema secondo il quale il numero è potenza, il governo decise di premiare le giovani coppie e tassare gli uomini (dai 25 ai 65 anni) non sposati. Alle famiglie numerose vennero riconosciute , nel giugno 1928, diverse esenzioni fiscali e la priorità nell’assegnazione di alloggi popolari. Fu quindi stabilito che i nubili avessero la precedenza sui celibi, e i genitori sui coniugati senza figli, nei concorsi e nelle promozioni negli impieghi pubblici. Considerate non sufficienti tali iniziative per un adeguato incremento demografico, si predisposero dei premi per le famiglie numerose, si istituì la Giornata della madre e del fanciullo”, e si moltiplicarono i consultori per la maternità.  

3. Proibizione dello sciopero e messa fuori legge delle organizzazioni sindacali (naturalmente tranne

    quelle fasciste)

Nell’ottobre del 1925, l'organizzazione degli industriali sottoscrisse con i sindacati fascisti il Patto di Palazzo Vidoni, che escludeva dalla firma di accordi contrattuali tutte le altre organizzazioni sindacali. L’anno successivo venne varato un insieme di provvedimenti che proibiva lo sciopero e sanciva per i soli sindacati fascisti il diritto di stipulare contratti collettivi. L'ordinamento corporativo veniva presentato come l'alternativa fascista al capitalismo e al socialismo: superata la lotta di classe, esso mirava ad ottenere il concorde contributo dei produttori (capitale, lavoro e tecnica) per lo sviluppo economico e il progresso sociale.

La modernizzazione, per fare dell’Italia una grande potenza mondiale

Lo stretto legame con la tradizione rurale certo non poteva consentire di soddisfare l’esigenza, più volte mostrata da Mussolini, di fare dell’Italia una grande potenza mondiale. E’ necessario ricordare come lo sviluppo economico e sociale dell’Italia in quegli anni, rispetto alle grandi potenze europee (Inghilterra, Francia, Germania), era molto arretrato (alla fine degli anni ’30 il reddito medio di un italiano era un terzo di quello di un inglese e un quarto di quello di uno statunitense). Nelle intenzioni la modernizzazione del Paese si doveva attuare secondo le seguenti direttive:

Nel 1933 venne stanziato un fondo per le indennità di disoccupazione, e furono adottate nuove proposte per i casi di invalidità, di infortuni sul lavoro, di malattie professionali. Agli inizi degli anni trenta gli iscritti alla mutua erano 800.000, divennero, solo dieci anni più tardi, tredici milioni. E’ inoltre di questi anni il riconoscimento della settimana lavorativa di 40 ore, del diritto ad un giorno di riposo settimanale, degli assegni familiari a tutte le categorie di lavoratori.

 

2.4 Politica economica

Nascita del sindacato unico

Nel periodo in cui il fascismo andò al potere la crisi economica post-bellica era ormai conclusa, il positivo andamento dell’economia contribuì a rafforzare la posizione dominante assunta dal regime. Una delle prime iniziative prese dal governo di Mussolini (1925) fu  di costituire un sindacato unico in rappresentanza di tutti i lavoratori, e la messa al bando di tutte le altre organizzazioni operaie.

 

Una politica economica protezionistica, la “battaglia del grano”

Per affrontare le difficoltà finanziarie il governo di Mussolini iniziò una politica protezionistica che prevedeva un accentuato intervento statale nell’economia. Un primo importante provvedimento in questo senso, finalizzato ad ottenere l’autosufficienza del paese nel settore dei cereali, fu l’inasprimento del dazio sull’importazione dei cerali stessi. Sempre al fine di ottenere l’autosufficienza nella produzione di cereali, la cosiddetta “battaglia del grano” si aumenta la superficie di terreni coltivati a grano (spesso a scapito di altre colture) e si punta all’uso di tecniche avanzate di coltivazione.

 

La risposta del regime alla crisi del ‘29

Come vedremo, nel 1929 si manifesta ai massimi livelli una crisi economica mondiale che non risparmia nessun paese industrializzato; l’Italia fascista risponde a questa crisi muovendosi su due direttrici:

in tal modo lo stato Italiano si trova a controllare una quota dell’apparato industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro Stato liberale, iniziano in questo periodo quei sistemi di sostegno reciproco tra potere economico e potere politico che tanta forza hanno avuto anche in anni recenti.

 

Un’economia di guerra 

La crisi economica del ’29 si poteva considerare definitivamente superata nel ’35. Ma è proprio dal 1935 che iniziò una politica di dispendiose imprese militari che sottrassero utili risorse ai consumi e agli investimenti produttivi, contribuendo ad isolare economicamente il paese dal resto del mondo. Iniziava quella che verrà a posteriori chiamata “economia di guerra”.

 

4.5 Una politica estera aggressiva

Verso una politica estera aggressiva

Una politica estera aggressiva e il suo sbocco bellico non furono un accidente di percorso o puramente e semplicemente una scelta azzardata e solitaria di Mussolini: politica demografica e politica economica e gli stessi sforzi in direzione della "modernità" e del consenso ne avevano rappresentato le necessarie premesse. Fin dai primi anni venti, il peso della tradizione nazionalista e gli interessi di ampi settori dell'industria alimentarono velleità "revisioniste" nei confronti degli assetti di Versailles, che si tradussero a più riprese in gesti intimidatori, come l'occupazione del Dodecaneso nel 1923. Le direttrici dell'espansionismo italiano rimasero quelle già ampiamente profilatesi nel periodo liberale: l'Africa nordorientale e l'area balcanico-danubiana. Per tutti gli anni venti, tuttavia, l'esigenza di consolidare il regime all'interno e di legittimarlo sul piano internazionale indusse Mussolini a subordinare le proprie ambizioni imperialiste ad una politica su più fronti, tutto sommato cauta e tendente, se mai, ad accreditare all'Italia un ruolo di mediazione fra le potenze. Al congresso di Locarno del 1925, in effetti, essa si fece garante della stabilità dei confini europei ridisegnati dopo la Grande Guerra.

 

La svolta degli anni trenta (il nuovo colonialismo italiano)

Fu negli anni trenta che - raggiunti gli obiettivi prefissi e riconsolidata la propria presenza in Libia e in Somalia - l'aggressività della politica estera fascista si dispiegò compiutamente, preparata da un'intensa propaganda, centrata sulla rivendicazione di un "posto al sole" per la potenza italiana. Nella prima parte del decennio, l'emergere di un contrasto fra le mire di Mussolini e di Hitler sull'Austria portò ad un riavvicinamento alla Francia. La svolta però si ebbe nell'ottobre 1935 con l'aggressione all'Etiopia. La maggiore forza militare (non senza un uso massiccio di gas asfissianti, bombardamenti di obiettivi civili e deportazioni in massa) permise all'Italia di avere abbastanza facilmente ragione della resistenza guidata dall'imperatore Hailé Selassié. L'attacco all'Etiopia provocò una dura reazione da parte della Società delle Nazioni, che adottò nei confronti dell'Italia sanzioni economiche, bloccando i rifornimenti dall'estero all'industria bellica. L'efficacia di tali misure fu però molto parziale e comunque tale da non compensare l'uso propagandistico che ne venne fatto dal fascismo: nel 1936, quando Vittorio Emanuele III venne incoronato imperatore d'Etiopia, si assisté così ad una sorta di infatuazione, che, per quanto effimera, parve portare il consenso degli italiani nei confronti del regime alla sua massima espansione.

 

Si rafforzano i rapporti con la Germania di Hitler (il patto d’acciao del 1939)

Sempre in questo periodo si assiste ad una sempre più evidente subordinazione dell’Italia alla politica espansionistica della Germania nazista. Dopo la firma di un patto antisovietico con la Germania e il Giappone e l'uscita dell'Italia dalla Società delle Nazioni nel 1937, la realtà dei rapporti di forza tra i due paesi apparve in piena evidenza nel marzo 1938, quando Mussolini non fu in grado di opporre alcuna resistenza all'annessione al Terzo Reich dell'Austria (Anschluss), verso la quale pure non aveva nascosto le sue ambizioni di potenza proprio in concorrenza con Hitler. A sancire questa situazione sopraggiunse, nel mese di settembre, la Conferenza di Monaco, che aprì la strada all'occupazione tedesca della Boemia e della Moravia, subito seguita (quasi a sottolineare la subalternità italiana all'iniziativa tedesca) dall'invasione fascista dell'Albania. Infine, nel maggio 1939, le sorti dell'Italia vennero inscindibilmente legate alle scelte della Germania dalla stipula del cosiddetto Patto d'acciaio, con il quale ciascuna delle due potenze si impegnava ad entrare in guerra a fianco dell'altra, indipendentemente dal carattere offensivo o difensivo di un eventuale conflitto. Quando la guerra scoppiò, nel settembre 1939, la proclamazione della "non belligeranza" dell'Italia in apparenza sembrava smentire queste premesse. In realtà, essa era dettata dai timori suscitati dall'impreparazione dell'Italia di fronte ad uno sforzo bellico e non era in contraddizione con le linee entro le quali, obbedendo in larghissima misura alle scelte personali del Duce, si era sviluppata sino a quel momento la politica estera del fascismo. Pochi mesi dopo infatti, l'entrata in guerra a fianco della Germania avrebbe confermato che la guerra rappresentava l'esito più naturale e coerente della politica fascista.

 

4.6 I rapporti con la Chiesa ufficiale e i “Patti lateranensi”

Il regime fascista, anche al fine di allargare le basi del consenso, dovette chiarire il tipo di rapporto che lo legava con la Chiesa romana; tale compito fu agevolato dalla simpatia che il fascismo sembrava suscitare negli ambienti rappresentativi della Chiesa . Non è un caso che il Vaticano decida di sciogliere il Partito popolare e di sostenere i cattolici filofascisti, scegliendo di firmare proprio con Mussolini quel compromesso che aveva rifiutato di concedere allo stato liberale (patti lateranensi, prendono il nome dal luogo in cui furono firmati).

Con i patti lateranensi del febbraio 1929, si prendono delle decisioni in merito ai rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica che sono  validi tuttora:

 

4.7 Il regime fascista e le opposizioni 

Per sua stessa natura, il fascismo era un regime antidemocratico, gerarchico e repressivo. Fin dalle leggi eccezionali del 1926, tutti i partiti e i movimenti antifascisti furono costretti all'emigrazione o ad operare esclusivamente nella clandestinità. La repressione del dissenso nell'Italia fascista si esercitò però a vari livelli:

 

4.8 Apogeo e declino del regime fascista

Il massimo del consenso popolare

La vittoriosa campagna militare alla conquista dell’Etiopia consentì al regime fascista di raggiungere il massimo consenso tra la popolazione.

 

I motivi del dissenso

Il raggiungimento del massimo consenso coincide con l’inizio della discesa dello stesso, in pochi anni (dal 1935 al 1940) gli italiani passeranno da un atteggiamento di consenso a uno di netto dissenso al regime, i motivi sono diversi, tra i tanti dobbiamo sottolineare i seguenti:  

  1. una politica economica che danneggiò le classi popolari
  2. l’amicizia con la Germania nazista
  3. le leggi razziali
  4. la guerra

 

1. Una politica economica che danneggiò le classi popolari

La politica economica del regime più che cercare di migliorare le condizioni economiche di tutti si è lasciata trascinare dalla volontà di mostrare all’estero la potenza della nazione Italia, soprattutto promovendo iniziative di politica autarchica finalizzate a mostrare la capacità di bastare a se stessi per quanto attiene le risorse energetiche, alimentari e di altro tipo. Una tale politica, in parte legata a necessità contingenti (la conquista dell’Etiopia, condannata dalle altre nazioni appartenenti alla Società delle Nazioni, costò delle sanzioni economiche e l’embargo all’Italia), portò ad un aumento dei prezzi che si ripercosse in un peggioramento della qualità della vita tra le classi popolari.

 

2. L’amicizia con la Germania nazista

L’avvicinamento di Mussolini e del suo ministro degli esteri Galeazzo Ciano alla Germania di Hitler, destò parecchie preoccupazioni e dissensi tra la popolazione (in particolare tra la classe borghese che vedeva minacciati i propri interessi), questa percependo la carica aggressiva presente nel nazismo riteneva, a ragione, sempre più concreta la minaccia di una nuova guerra in Europa, guerra alla quale l’Italia non si sentiva assolutamente preparata.

 

3. Le leggi razziali 

Si deve all’amicizia con Hitler l’introduzione da parte di Mussolini nel 1938 di una serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei. Le leggi escludevano gli ebrei dall’impiego presso gli uffici pubblici, limitavano la loro attività professionale, vietavano i matrimoni misti. Anziché suscitare consenso, le leggi razziali provocarono sdegno, sconcerto o perlomeno perplessità nell’opinione pubblica italiana, estranea, per natura, alle discriminazioni razziali.

 

4. La guerra

Il momento in cui si manifesta il definitivo abbandono del fascismo da parte anche di chi lo aveva sempre sostenuto, coincide con l’inizio della seconda guerra mondiale. Si assistette, in quel particolare momento, al drammatico fallimento di un regime che pur essendo centrato su una politica di potenza e sull’esaltazione della guerra, si mostro del tutto impreparato e incapace di affrontare il conflitto, mostrando l’enorme divario  esistente tra l’apparenza di superpotenza che si voleva dare dell’Italia all’estero e agli stessi italiani, e la realtà di paese scarsamente sviluppato, ancora principalmente dedito all’agricoltura qual esso era in realtà, assolutamente impreparato ad affrontare un conflitto di notevoli proporzioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Il Nazionalsocialismo in Germania

3.1 La Repubblica di Weimar

Introduzione

Con Repubblica di Weimar si intende il regime politico esistente in Germania dal 1919 fino all'avvento al potere di Adolf Hitler nel 1933. Il nome Weimar indica la città, nella regione tedesca della Turingia, dove si riunì l'Assemblea nazionale costituente che definì il nuovo ordinamento repubblicano[1].

Insediata il 6 febbraio 1919, a poche settimane dal sanguinoso fallimento della rivolta spartachista di Berlino, l'Assemblea risentì delle profonde lacerazioni prodotte nel paese dalla guerra, sforzandosi di risolverle sul piano giuridico attraverso un complesso bilanciamento tra i diversi poteri dello stato e i diritti dei cittadini.

Il risultato fu la Costituzione promulgata l'11 agosto 1919, che faceva della Germania una Repubblica democratica federale (formata da 18 stati regionali), fondata su un delicato equilibrio di poteri tra le camere del Parlamento, il Reichstag (l'assemblea dei deputati con funzioni legislative) e il Reichsrat (l'assemblea dei rappresentanti degli stati, con funzioni consultive e di controllo) e tra Reichsrat e il capo dello stato

Il capo dello stato, o presidente della Repubblica, viene eletto direttamente dal popolo e dotato di ampi poteri che arrivavano, con l'articolo 48, alla facoltà di emettere ordinanze di emergenza con valore di legge senza il voto del parlamento in presenza di "rilevanti turbamenti della sicurezza e dell'ordine".

 

Le prime difficoltà incontrate dalla Repubblica di Weimar

Gli esordi della Repubblica di Weimar furono difficili. Dalla fine della prima guerra mondiale la Germania si trovava a dover affrontare una serie di problemi di ordine economico, sociale e politico quasi insormontabili.

In campo economico le dure condizioni di pace dettate dal trattato di Versailles del giugno 1919 (in particolare, il completo disarmo del paese e le ingenti riparazioni di guerra richieste dagli Alleati) causarono una inflazione e un debito nazionale senza precedenti. Incapace di far fronte ai pagamenti, la Germania dovette effettuare ripetute svalutazioni del marco che polverizzarono il valore della moneta tedesca e inasprirono ulteriormente la crisi finanziaria del paese. La crisi raggiunse il massimo grado quando, nel gennaio del 1923 a causa del ritardato nel pagamento delle riparazioni di guerra, truppe franco-belghe occuparono la ricca regione industriale tedesca della Ruhr,. Per le finanze dissestate del paese l’occupazione della Ruhr rappresentò il tracollo definitivo; il marco, lasciato al suo destino, perse quasi completamente il proprio potere d’acquisto (un chilo di pane giunse a costare 400 miliardi di marchi, e un chilo di burro 5000 miliardi di marchi).

In ambito politico, invece, è necessario segnalare la presenza nel nuovo parlamento della repubblica di Weimar di una opposizione di sinistra e di destra, che non riconosceva la piena legittimità della nuova repubblica:

 

Verso la stabilità

Dopo i primi anni di difficoltà (1919-1923) la situazione economica e politica cominciò gradualmente a migliorare anche grazie all’abilità del primo ministro (cancelliere) conservatore Gustav Stresemann. Questi nell'agosto del 1923 formò un governo di "grande coalizione" impegnato in un programma di risanamento economico e di stabilizzazione politica. La situazione economica nella Repubblica di Weimar migliorò sensibilmente  anche perché nel 1924si ottenne una consistente riduzione delle riparazioni di guerra e l'aiuto economico degli Stati Uniti (il cosiddetto “Piano Dawes” che prevedeva un cospicuo prestito finalizzato alla ripresa economica). Nel frattempo Stresemann nel 1925 avviò la normalizzazione delle relazioni internazionali del paese aderendo agli accordi di Locarno, che garantivano le frontiere occidentali dalla Germania e ne prepararono l'ingresso nella Società delle Nazioni (1926). Sempre nel 1925 avviene l'elezione a presidente della repubblica del maresciallo Paul von Hindenburg, candidato dei nazionalisti.

 

Il crollo della Repubblica di Weimar

I fragili equilibri economici e politici raggiunti con fatica erano destinati a durare per pochi anni, la grande depressione economica mondiale del 1929 spinse gli Stati Uniti a richiedere alla Germania la restituzione dei finanziamenti concessi con il “piano Dawes”, per la fragile economica tedesca questo colpo fu mortale, nel 1930 si arriva a sei milioni di disoccupati.

Dalla particolare situazione economica e dalla relativa instabilità politica trae beneficio il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, guidato da Adolf Hitler, le posizioni ultranazionaliste e antisemite raccolgono il voto tanto dei gruppi d'ordine conservatori, quanto dei ceti popolari colpiti dalla crisi, facendo dei nazisti sin dalle elezioni per il Reichstag del 1930 il secondo gruppo politico del paese. Incapace di formare governi di maggioranza, Hindenburg indisse nuove elezioni nel 1932, che decretarono la vittoria del Partito nazionalsocialista. Ciò aprì a Hitler la via al cancellierato (a diventare primo ministro), carica cui il capo nazista fu chiamato dallo stesso Hindenburg il 30 gennaio del 1933. Una volta al potere, Hitler trasformò rapidamente (alcuni mesi) il sistema repubblicano in una dittatura di partito, si chiuse in tal modo definitivamente la breve e tormentata storia della Repubblica di Weimar.  

 

3.2 Le radici e l’ascesa del nazismo

La pesante eredità della “Grande guerra”

L'ascesa del movimento nazionalsocialista trasse forte impulso dallo scontento diffuso fra i tedeschi alla fine della prima guerra mondiale.

Ritenuta la principale responsabile del conflitto, la Germania dovette infatti accettare le pesantissime condizioni del trattato di Versailles, che provocarono un periodo di notevole depressione economica (segnato da un'inarrestabile inflazione e da una vasta disoccupazione) e suscitarono in molti tedeschi un sentimento di rancore e di rivincita che avrà degli effetti devastanti, come vedremo.

 

Definizione del nazionalsocialismo (o nazismo)

Il Nazionalsocialismo, termine spesso abbreviato in "nazismo", designa la dottrina politica che dava contenuto ideologico al National Sozialistische Deutsche Arbeiterpartei (NSDAP; Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori). I principi centrali della dottrina nazista, per alcuni aspetti affine al fascismo italiano, erano ispirati alle teorie che sostenevano una presunta superiorità biologica e culturale della razza ariana formulate da Houston Stewart Chamberlain e da Alfred Rosenberg; ma il successo della formula politica in Germania fu dovuto anche alla sua relazione di continuità con la tradizione nazionalista, militarista ed espansionista prussiana, nonché al suo radicamento nella cultura irrazionalista di inizio secolo.

 

L’ascesa del nazismo

Finanziata dagli ambienti militari, la formazione politica guidata da Adolf Hitler nacque nel 1920 in un paese prostrato dalla guerra e attraversato da violenti conflitti politici e sociali. Parte dei militanti furono organizzati in una specie di braccio armato, le SA (Sturm Abteilungen, "sezioni d'assalto"); le SA avevano il compito di intimidire con la violenza gli avversari politici e i sindacalisti.

Nel suo programma, Hitler formulò un’azione antidemocratica, imperniata sul nazionalismo e sull'antisemitismo, e nel 1923 dotò il partito di un efficace strumento di propaganda, il quotidiano "Völkischer Beobachter" (L'osservatore nazionale), e di un simbolo ufficiale, una croce uncinata nera, inscritta in un cerchio bianco su campo rosso: la svastica. Nello stesso anno intensificò la propaganda e le azioni dimostrative contro il Partito comunista tedesco, tentando infine un colpo di stato (il putsch di Monaco) per rovesciare il governo. Il tentativo fallì e Hitler fu condannato a tre mesi di carcere. Durante la detenzione, scrisse la prima parte di Mein Kampf (La mia battaglia), l'opera in cui riassunse i capisaldi dell'ideologia nazista, tracciando il suo progetto di conquista dell'Europa.

Il Partito nazionalsocialista (NSDAP, National-Sozialistische Deutsche Arbeiter Partei) rimase, in ogni caso, un piccolo partito fino al 1928; nelle elezioni di quell'anno, infatti, il partito di Hitler ebbe appena il 2,6% dei voti e 12 deputati. Solo nelle elezioni successive, del 1930, il partito ottenne un grande successo raccogliendo quasi sei milioni e mezzo di voti (pari al 18.3%) e 107 seggi diventando in tal modo il secondo partito della Repubblica dopo il partito socialdemocratico, che in quelle stesse elezioni aveva ottenuto il 24.5% dei voti.

Infine, come abbiamo visto, nelle elezioni del 1932 il partito nazista ottiene la maggioranza e il presidente Hindenburg affida a Hitler l’incarico di canceliere (30 gennaio 1933).

Un tale aumento nel consenso al partito nazista è correlato anche alla notevole divisione esistente tra gli altri partiti:

 

I motivi del successo

Innumerevoli furono i motivi che spiegano il largo consenso ottenuto dal partito nazista, tra questi:

 

3.3 Il Nazismo al potere

La dittatura

Arrivati legalmente al governo, i nazisti costruirono una dittatura, basata sul partito unico, in appena sei mesi. La tattica usata per la conquista del potere si coniugò con il terrorismo delle SA; la società tedesca venne insomma sottoposta a una duplice pressione eversiva, esercitata dall'alto e dal basso. L'incendio del Reichstag, avvenuto il 27 febbraio 1933, attribuito ai comunisti, rappresentò il pretesto per un giro di vite antidemocratico. Il giorno dopo Hindenburg firmò un decreto "per la protezione del popolo e dello Stato" che sopprimeva a tempo indeterminato i diritti fondamentali della Costituzione (libertà di stampa, di opinione, di associazione), consentiva la violazione del segreto epistolare e il controllo dei telefoni.

Nelle nuove elezioni di marzo 1933 la NSDAP otteneva il 43.9% dei voti, mentre le opposizioni di sinistra e di centro raggiungevano pressappoco lo stesso risultato ma rimanevano incapaci di unirsi. Il nuovo parlamento venne chiamato a votare una legge sui pieni poteri al cancelliere per la quale era necessaria, a norma della Costituzione, una maggioranza (i due terzi), sulla quale il governo non poteva contare. La legge passò grazie all'assenza dei parlamentari comunisti e di una parte dei deputati socialdemocratici dato che erano stati tutti arrestati. Il provvedimento consentiva al governo di legiferare anche in contrasto con la costituzione; attribuiva al cancelliere la facoltà di firmare decreti al posto del presidente e riservava al solo governo la gestione dei trattati internazionali.

Dotato ormai degli strumenti "legali" per imporre la sua volontà, il governo procedette allora al cosiddetto "allineamento"; non sarebbe più stata consentita l'esistenza di alcuna istituzione pubblica o privata che non fosse controllata da uomini della NSDAP.

Vennero quindi distrutti i partiti operai e confiscato il loro patrimonio. Anche i sindacati subirono la stessa sorte; i loro dirigenti, nonostante avessero manifestato un orientamento non ostile al governo, vennero a loro volta arrestati. La radio e la stampa vennero asservite al nuovo governo. L'assalto al mondo della cultura assunse caratteri parossistici, il 10 maggio vennero dati pubblicamente alle fiamme i libri degli autori considerati antinazionali. Il 14 luglio 1933 una legge vietava la ricostituzione dei partiti; unico partito riconosciuto e legittimato restava il NSDAP, ormai identificato con lo Stato.

 

Il consolidamento del potere, la ''notte dei lunghi coltelli'' e la nascita del Terzo Reich

Una volta conquistato il potere, si trattava di consolidarlo, rassicurando alleati e ambienti conservatori; l'ordine non doveva più essere turbato. Il 30 giugno 1934, prendendo a pretesto le notizie di un colpo di stato organizzato dalle SA, Hitler in persona dette l'avvio alla cosiddetta "notte dei lunghi coltelli"; un vero e proprio regolamento di conti con l'antico amico e alleato Röhm (capo delle SA). Insieme a Röhm, vennero arrestati e assassinati i suoi principali collaboratori; le vittime furono un centinaio. Le SS, nella persona dei loro capi Himmler e Heydrich, si assunsero la responsabilità dell’operazione, e da allora si collocarono come struttura centrale nello stato nazista.

Alla morte del presidente Hindenburg (2 agosto 1934) il potere di Hitler divenne illimitato, egli assunse anche la carica di presidente della Repubblica. La Wehrmacht, su proposta del ministro della Difesa generale Blomberg, adottò un nuovo giuramento, che obbligava soldati e ufficiali all'obbedienza al Führer. Nasceva così il Terzo Reich (terzo dopo l'impero medievale e quello guglielmino).

 

Lo stato di Hitler

Lo stato nazista si dotò di una serie di amministrazioni speciali che dipendevano direttamente da Hitler; tra queste l'organismo più significativo per la delicatezza dei compiti affidatigli e l'ideologia che lo animava fu certamente il corpo delle SS. Corpo d'élite, composto da uomini che dovevano dimostrare la purezza della "razza ariana", reclutato nei suoi vertici tra le file dell'aristocrazia e della borghesia colta, esso agiva senza alcun controllo per compiti speciali di polizia. Alle SS vennero affidate la repressione sistematica di ogni opposizione, la sorveglianza dei campi di concentramento e la "gestione" del problema ebraico. Al di sopra della legge, controllavano ogni settore dell'apparato statale ad esclusione, almeno nel periodo prebellico, della Wehrmacht.

Il sistema nazista fu in primo luogo un sistema di dominio, e l'applicazione delle misure repressive fu puntuale e spietata. La misura più caratteristica della repressione era l'"arresto politico"; totalmente arbitrario, non era sottoposto ad alcuna verifica da parte della magistratura e mirava a controllare preventivamente ogni potenziale oppositore. Diretto in primo luogo contro comunisti e socialisti, venne usato massicciamente nel marzo e nell'aprile del 1933 per distruggere le organizzazioni del movimento operaio. Dato che le carceri non erano sufficienti per contenere una simile massa di persone si istituirono in questo periodo i campi di lavoro. Nel luglio del 1933 vi vennero rinchiuse 27.000 persone. Tra il 1934 e il 1937 la popolazione dei campi di lavoro era costituita non più solo da politici, ma da quanti venivano considerati “diversi”, non graditi al regime, vi troviamo:

Solo con la guerra i campi di lavoro si trasformeranno in strutture per la morte di massa, somministrata principalmente agli ebrei.

 

Politica economica

La politica economica del governo nazista fu diretta con abilità dal reintegrato governatore della Reichsbank e ministro dell'Economia, Hjalmar Schacht. Si trattò di una politica dirigista, pianificata centralmente secondo sistemi non lontani da quelli sovietici e finanziata con il debito pubblico. Fino al 1934 vennero stanziati 5 miliardi di marchi per creare posti di lavoro (una cifra pari al triplo degli investimenti privati industriali del periodo). I settori favoriti furono quelli dell'edilizia pubblica e privata e l'insieme di industrie che lavoravano al potenziamento dei sistemi di difesa. Particolare rilievo, anche ai fini del consenso, ebbero la costruzione di una rete di autostrade e i connessi progetti della Volkswagen per incrementare la motorizzazione privata.

Fino al 1936 la ripresa produttiva favorì anche una crescita dei redditi e dei consumi privati e il conseguimento di un relativo benessere tra la popolazione, specialmente se confrontato con gli anni durissimi della crisi. Con il piano economico del 1934 e soprattutto con quello quadriennale del 1936, il deficit dello Stato e il risparmio dei cittadini servirono invece a finanziare il riarmo; il bilancio della Wehrmacht, che nel 1933 rappresentava solo il 4% di quello complessivo, salì al 18% nel 1934, al 39% nel 1936, fino a toccare il 50% nel 1938. Schacht, pur non essendo contrario in linea di principio al riarmo, non condivideva questa compressione dell’industria civile e dei consumi privati; fu questa la ragione che condusse alla sua progressiva emarginazione. Nel 1936 l'incarico di commissario al piano quadriennale passò ad Hermann Göring, che lo aggiunse a quello di capo della Luftwaffe, l'aeronautica tedesca. Gli obiettivi economici furono da allora subordinati a quelli politici, definiti in questi termini dal Führer: "l'armata tedesca deve essere pronta a combattere entro quattro anni. L'economia tedesca deve essere pronta alla guerra entro quattro anni".

Ne furono favoriti i settori dell’industria pesante, soprattutto chimica, mentre restarono penalizzate le industrie produttrici di beni di consumo, con evidenti ripercussioni sul livello di vita delle popolazioni. Nelle campagne nessun intervento venne compiuto per ridurre la proprietà latifondistica, che continuò ad esercitare un ruolo dominante nella produzione agricola; e pressoché inesistente fu la meccanizzazione produttiva, e dunque la modernizzazione delle colture.

 

Politica sociale

La Volksgemeinschaft, la "comunità di popolo" fu la parola chiave della politica sociale del regime nazista. Il partito e le istituzioni del regime avevano il compito di mobilitare, educare e sorvegliare ogni singolo cittadino, e al tempo stesso assisterlo assicurandogli un relativo benessere. L’educazione e il benessere degli operai furono affidati al Fronte tedesco del Lavoro, nato nel maggio del 1933. Lo sciopero e gli strumenti tradizionali di difesa dei lavoratori erano banditi, e con la "Legge per l'ordinamento del lavoro nazionale" del 1934 una rigida gerarchia venne imposta nelle fabbriche e in generale nei luoghi di lavoro; tutti i lavoratori dovevano obbedienza a un capo. Nel 1937 i salari reali avevano raggiunto il livello precedente alla crisi grazie alla capacità del regime di mantenere bassi i prezzi al consumo. Il relativo benessere che ne derivò fu tuttavia il prodotto di un allungamento della giornata di lavoro piuttosto che dell'incremento dei salari medi orari; in altre parole, i lavoratori guadagnavano di più perché lavoravano un maggior numero di ore. In cambio, essi poterono giovarsi dell'estensione di alcune provvidenze già concesse dalle grandi imprese negli anni venti; cibi caldi nelle mense aziendali, aree verdi e spazi ricreativi in fabbrica, colonie estive per i propri figli. Aumento delle giornate di ferie retribuite dodici giorni all'anno invece dei tre che costituivano la media del 1933. L'accesso ai nuovi consumi della società di massa (dalla radio al cinema allo sport) venne così promosso come compenso per la sottrazione dei diritti essenziali di libertà.

 

Politica estera e mire espansionistiche

La costruzione dello Stato totalitario e la politica economica del regime avevano come fine i progetti di espansione territoriale già disegnati nel Mein Kampf. Già dal 1934 il regime si cercò una revisione delle clausole del trattato di Versailles. La Germania uscì dalla Società delle Nazioni e intraprese una politica di accordi bilaterali (con la Polonia e con l'URSS) che miravano a rompere l'isolamento del paese e a preparare la direttiva espansiva verso Est.

In ambito di politica estera il primo obiettivo fu di riunire tutti i tedeschi dentro lo stesso territorio nazionale, a cominciare dai tedeschi d'Austria. Questa politica di espansione sarà tra le prime cause della seconda guerra mondiale, probabilmente l’idea di una nuova guerra non spaventava Hitler il quale, forse, cercava l’occasione del conflitto per mostrare al mondo intero quale fosse la forza del Terzo Reich.

 

3.4 L’ideologia nazista e l’antisemitismo

Le idee di Hitler e l’ideologia nazionalsocialista

Le idee politiche di Adolf Hitler, fondamento della ideologia nazista, vengono da lui espresse nell’opera “Mein Kampf” (“La mia battaglia”, pubblicato tra il 1925 e il 1926). L’ideologia che emerge dall’opera mostra di basarsi su due idee principali:

  1. il popolo tedesco rappresenta, per natura, la razza superiore; ogni altro popolo (rappresentante di razze inferiori) deve sottomettersi al volere del popolo tedesco 
  2. la vita è una continua lotta in cui solo il più forte sopravvive (ed è giusto che sia così)

 

Date queste premesse abbiamo una serie di conseguenze:

la propaganda nazista si basò esplicitamente sulla riscossa della Germania riuscendo a fare breccia in un ampio schieramento senza distinzione di classi. In tre anni, tra il 1930 e il 1933, gli iscritti salirono a 850.000, mentre le SA (le "camicie brune", come erano chiamate dal colore delle loro uniformi) raggiungevano il milione.

 

Conseguenze della persecuzione antisemita

La persecuzione antisemita venne avviata all'indomani della presa del potere nel 1933. Una legge del 7 aprile 1933 sancì l'esautorazione degli ebrei dalle amministrazioni statali e comunali, ad esclusione degli ex-combattenti. Successivi provvedimenti si accanirono contro altre figure professionali; docenti universitari, avvocati, medici, artisti. Alla fine di aprile del 1933, 37.000 ebrei avevano lasciato la Germania.

Il radicale odio semitico si manifestò nel 1935 con la promulgazione delle cosiddette leggi di Norimberga, approvate per acclamazione dal Parlamento appositamente convocato, queste:

Nell'impossibilità di definire che cosa si dovesse intendere per "ebreo" la legge doveva far ricorso come criterio identificativo all'appartenenza alla religione ebraica.

Il culmine della offensiva antiebraica si ebbe nella notte del 9 novembre 1938 (chiamata la "notte dei cristalli"). La propaganda ufficiale la presentò come una ritorsione (per l'assassinio avvenuto a Parigi il 7 novembre di un segretario della locale ambasciata tedesca ad opera di un ebreo polacco). Vennero assassinate 91 persone, distrutti 7.500 negozi, incendiate circa 200 sinagoghe e danneggiate quasi altrettante, senza contare numerose altre violenze; 26.000 ebrei vennero arrestati e internati in campi di concentramento. Questa clamorosa e sanguinosa repressione contro gli ebrei fu organizzata e concretamente realizzata dalla Gestapo, dalle SS e dal partito. Le violenze della notte dei cristalli sono, comunque, ancora da vedere come tentativo di allontanare egli ebrei dalla Germania, rendendo loro la vita impossibile. Lo sterminio venne pensato e realizzato più tardi, durante la guerra, quando crebbe enormemente il numero degli ebrei stanziati nei territori del Reich e non apparve più realizzabile l'idea di trasferirli altrove.

Solo allora si pensò e si procedette alla loro sistematica eliminazione.

 

 


 

[1] Il nuovo ordinamento costituzionale repubblicano fu una conseguenza dell'abdicazione dell'imperatore Guglielmo II   

   dopo la sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale. 

 

[2] Nel 1926 fecero la loro comparsa anche le SS (Schutz Staffeln, milizie di protezione), che, originariamente

  inquadrate nelle SA, fungevano da guardia del corpo di Hitler.

[3] Il termine indica le popolazioni di razza bianca, ritenute dai tedeschi naturalmente superiori a tutte le altre